domenica 28 aprile 2013

Costituzione, Economia e Stato Sociale

Riprendo qui un articolo datato 2006 e tratto dalla rivista on line Sintesi Dialettica, che esamina, alla luce della ns Costituzione, i rapporti tra Stato e Libero Mercato e pertanto in stretta relazione tra le presunte e dovute cessioni di sovranità nazionale rispetto ai sostanziali principi e dettami dei ns padri costituenti.

Sintesi, appunto, e diagnosi di realtà dimenticate.

Una buona lettura ed un altrettanto buona riflessione.

Un saluto,
Elmoamf



Articolo
La oramai inflazionata moda della rievocazione dello Stato liberale rappresenta, alla luce del dettato costituzionale e della teoria della forma di stato, un nostalgico ritorno al passato ed un’involuzione. Sulla scorta dell’analisi che qui presentiamo, evocareconsapevolmente l’idea dello Stato liberale è da considerarsi un vero e proprio attentato alla Costituzione della Repubblica italiana.
La dottrina costituzionalistica, tra i suoi vari distinguo, attua pure quello tra Stato liberale eStato sociale, rappresentando quest’ultimo un’evoluzione del primo. Questa evoluzione, nonostante le analisi di denuncia degli esponenti del socialismo e del cattolicesimo[1]ottocentesco, ma anche degli stessi esponenti del liberalismo – Alexis de Toqueville su tutti –, si è avuta solo una volta che il modello dello Stato liberale, degenerato verso l’individualismo radicale dell’homo homini lupus, degenerò verso i totalitarismi del secondo ventennio del ‘900. Questo ha voluto dire passare da una concezione meramente garantista, quella delle libertà negative (libertà dallo Stato), ad una concezione (pro)positiva (libertà nello Stato).
Questa evoluzione concettuale e funzionale dallo Stato liberale allo Stato sociale è sancita in modo esplicito dalla Costituzione all’art. 2 – “La Repubblica … richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” –, all’art. 3, 2° comma – “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” – e all’art. 4, 1° comma – “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Il Costituente, conscio che l’economia non sia altro che un riflesso della bontà del modello culturale adottato – che buono non può essere quando non procede verso il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione –, già dall’art. 1, 1° comma della Costituzione, tra i “Principi fondamentali” (artt. 1-12), fa un immediato riferimento al lavorosancendo solennemente: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Ma il riferimento all’economia, come si è già visto, è esplicito anche agli artt. 2, 3, 4 della Costituzione.
La questione economica, per il Costituente repubblicano, è dunque primaria, tanto da farvi riferimento nei primi quattro articoli del suo dettato.
A tal proposito, ci si potrebbe chiedere quanta sia oggi la distanza tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Ma, più ancora, tra la cultura dei pensatori del ’48 e la cultura deipragmatici d’oggi, che non fondano mail le proprie elaborazioni teorico-politiche sul pilastro dello sviluppo economico generalizzato[2], quanto piuttosto su demagogiche e velleitarie pretese di “esportare” democrazia, giustizia, libertà[3].
In questo quadro, il ruolo che i costituenti vollero per lo Stato fu quello interventista. Infatti, se a questo riguardo il tono del dettato è in molti punti possibilista – si pensi all’art. 42, 3° comma, e all’art. 43 –, all’art. 3, 2° comma, quello dell’eguaglianza sostanziale, all’art. 41, 3° comma[4] sulla attività economica, e all’art. 47 sul credito, è prescrittivi, anche se si è inteso interpretarlo in chiave programmatica, come a voler dire che è rimandato a non si sa quando.
A distanza di quasi sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, soprattutto in considerazione del fatto che durante il suo primo ventennio di vita, “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” erano costantemente ricercate[5], ci si può chiedere: il “programma” dell’art. 3, 2° comma, Cost., quando verrà ripreso, e soprattutto, perché è stato abbandonato negli ultimi trent’anni, durante i quali la forbice tra alti e bassi redditi ha ripreso vertiginosamente ad allargarsi?
Il lavoro
Come già visto, l’art. 1, 1° comma, Cost. recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
“I padri costituenti con questo primo articolo hanno doverosamente individuato un primus a cui fare inevitabilmente riferimento affinché si abbia una sana concezione delle relazioni politico-sociali e della persona umana.”[6] Il lavoro è dunque un pilastro su cui si erge il nostro sistema costituzionale. Sarebbe probabilmente bastata la corretta interpretazione, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della Costituzione per rilevare che il lavoro è un diritto. Ma il Costituente, all’art. 4, lo ha voluto sancire espressamente. Il lavoro,inquadrato nel reticolato dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, risulta essere l’unico strumento per eliminare le disuguaglianze sociali. Tuttavia, affinché ciò possa efficacemente realizzarsi “è bene interpretare il concetto di “lavoro” dal punto di vista più alto, e cioè come applicazione delle facoltà cognitivo-creative uniche dell’uomo, quelle che ci differenziano dagli animali e che permettono, attraverso le scoperte scientifiche, di aumentare la produttività con lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie. Questo onde evitare l’interpretazione riduttiva, marxista e feudale, oltre che antieconomica, del lavoro come semplice lavoro delle braccia.”[7]
Il dettato costituzionale, in più, avverte anche un’esigenza di carattere morale, esprimendo il netto rifiuto di una concezione dell’uomo come animale ozioso, vizioso e parassitario. Così l’art. 4, 2° comma, Cost. recita: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.[8] Dal peso derivante sulla società da questo inciso, in particolare sui governanti, non ci si può lealmente liberare sostenendo che nella società post-industriale della disoccupazione crescente, questo diritto non può essere riconosciuto e dunque, altrettanto, il dovere al lavoro non può essere preteso. Infatti il Costituente stesso, nel momento in cui emanò questa norma di principio, lo fece in un contesto storico di cui aveva piena consapevolezza, ossia quello della fase post-bellica della disoccupazione di massa. Se alla norma deve essere attribuito carattere programmatico, in ogni caso ciò esclude che dalla sua luce si possa scappare con forza crescente a distanza di quasi sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione. L’adesione alle politiche non interventiste e neo-liberiste avutasi con l’accettazione dei diktat del Fondo monetario internazionale a partire dal 1974, e poi a quelle di Maastricht dal ’92, non può essere giustificata col ricorso all’art. 11 Cost., poiché la violazione dell’art. 4 Cost., espressione dei principi fondamentali del dettato, risulta essere palese con l’adesione a quelle dottrine che il Costituente volle, invece, espressamente condannare. Ciò risulta sia dalla lettera che da un’interpretazione sistematica di tutto il testo.
La questione della proprietà privata
Anche la questione della proprietà privata è fra quelle che più segna il passaggio dalla forma di Stato liberale a quella dello Stato sociale. Se all’art. 29 dello Statuto Albertino, si parlava diinviolabilità della proprietà privata, la nostra Costituzione, all’art. 42, sposa una concezione che la dottrina ha definito “funzionale” di tale diritto, in quanto lo subordina al “perseguimento di determinati fini sociali”, tanto da parlarne come di “diritto soggetto ad affievolimento”[9].
L’eco della concezione cattolica della proprietà è fortissimo e si inserisce nella tradizione del Codice di Camaldoli[10].
E’ interessante notare la gerarchia adottata dal Costituente nel parlare di proprietà pubblica e privata: viene data, almeno in termini di citazione, la precedenza a quella pubblica. Questo aspetto è sicuramente rafforzato dagli articoli successivi, in riferimento a particolari categorie di beni.
Sezionando l’art. 42 della Costituzione, rileviamo che esso al primo comma recita: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.” Il legislatore costituzionale avverte dunque la necessità di citare la proprietà pubblica prima di quella privata. Ma avverte anche la necessità di precisare che i beni economici appartengono anche allo Stato, quasi a voler evitare ogni lettura, diciamo, anti-statalista che, alla luce della sola prima parte dell’articolo, avrebbe potuto interpretare l’aggettivo “pubblica” come genericamente riferibile al Popolo, negando così la sostanzialità dello Stato-Nazione. Di fatti, uno Stato senza proprietà alcuna, non è un soggetto libero.[11]
Il secondo comma recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.” Il Costituente rifiuta dunque la concezione marxista[12] della proprietà, sposando in modo pieno la ricostruzione fatta dalla Rerum Novarum di Leone XIII: proprietà privata sì, purché tale diritto sia esercitato non solo senza ledere l’altrui interesse, ma addirittura promuovendolo (“funzione sociale”, appunto). Viene detto poi che la proprietà privata deve essere resa “accessibile a tutti”. Questo, viste le attuali tendenze che il c.d. libero mercato consente di realizzare, deve essere inteso come un monito per impedire concentramenti di ricchezza così enormi da escludere sempre più il resto della cittadinanza dall’esercizio di questo diritto.
La Costituzione rafforza poi la sua presa di posizione passando da un’enunciazione di principio ad una maggiormente prescrittiva, anche se pur sempre possibilista: “La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.
L’ultimo comma di questo art. 42, infine, resta attivo sulla strada della lotta al privilegio: “La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” Se, dal lato privatistico, si vuol impedire il radicale scollamento del legame familiare, manifestato anche dal patrimonio, dal lato pubblicistico si ribadisce il collegamento esistente tra ricchezza individuale e comunità, riconoscendo l’esistenza di un diritto dello Stato sull’eredità. Dalla lettura di quest’articolo pare chiaro come la legge varata sotto il governo Berlusconi in materia successoria sia fuori del quadro costituzionale. Il Costituente, infatti, sostiene che lo Stato abbia dei diritti sull’eredità, e che questi diritti debbano essere disciplinati per legge. Interpretare questo comma sostenendo che la legge possa allora affermare che lo Stato non abbia alcun diritto sull’eredità, pur rappresentando formalmente un “valido” sillogismo, rappresenta sostanzialmente l’elusione della prescrizione costituzionale, e deve dunque essere rifiutato.
La questione del credito
La questione creditizia, oggi poco dibattuta a cospetto di una storia e di una scienza dell’economia che, invece, la pone sul gradino più alto degli aspetti direttamente connessi alle libertà individuali[13], non poteva non essere affrontata dal Costituente.
L’art. 47, 1° comma, Cost., recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.”
Anche questa norma è di carattere prescrittivo e non possibilista; infatti dice: la Repubblica incoraggia, tutela, disciplina, coordina, controlla; non “la Repubblica può incoraggiare, tutelare, ecc.”.
Ora, si potrebbe interpretare questo articolo dicendo: bene, la Costituzione afferma che la Repubblica disciplina il credito, così noi discipliniamo il credito dicendo che chiunque, a prescindere dagli scopi, può ottenere del credito. Una tale interpretazione a cosa corrisponderebbe se non ad un modo liberistoide di interpretare tale articolo, tanto da rendere inutile la previsione costituzionale? Nella sostanza, infatti, laddove il costituente, in merito al credito, niente avesse previsto, che differenza avrebbe fatto rispetto alla situazione prodotta da un simile tipo di interpretazione? Dunque, se il regime successorio in questo momento in vigore deve essere considerato esplicitamente incostituzionale, altrettanto deve esserlo il regime creditorio in vigore. In entrambi i casi si è fuggiti dalla prescrizione costituzionale, dandole un’interpretazione tale da renderla inutile.
Ad ogni modo il legislatore costituzionale, probabilmente conscio dei tentativi elusivi che dopo di lui interessi particolaristici avrebbero potuto esercitare a proprio vantaggio, precisa al 2° comma dello stesso articolo: “[La Repubblica] Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. In sostanza, mette in relazione diretta il livello finanziario (di cui il credito è aspetto centrale) con l’economia fisica, reale (abitazione e produzione agricola o di altro genere). Il Costituente è consapevole di come il credito, per avere una funzione sociale, per perseguire il Bene Comune, non possa andare verso attività meramente finanziarie (speculative), quanto piuttosto verso il sistema produttivo. Il Costituente, con questo articolo 47, entra nella tradizione propria del Sistema Americano di economia politica, come sviluppato da Alexander Hamilton sotto George Washington, Friedrich List, Henry C. Carey sotto Abramo Lincoln, e Franklin Delano Roosevelt.
La stessa emissione monetaria, alla luce del dettato costituzionale, non può spettare ad un organo indipendente come la Banca d’Italia, e oggi la Banca centrale europea. Il dettato costituzionale secondo la dottrina costituzionalistica, infatti, intende organi indipendenti - “cioè che debbano poter operare liberamente senza subire limitazioni da parte di altri organi, diverse da quelle previste dalla Costituzione”[14]  - tassativamente cinque attori: corpo elettorale, Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Non vi è dunque l’organo dell’emissione monetaria poiché tale funzione, come compreso dai padri costituenti americani, è funzione inscindibile dall’azione concertata tra potere esecutivo e potere legislativo.
Per poter correttamente interpretare l’art. 11, Cost. in combinato disposto con i principi fondamentali della nostra Costituzione come espressi dagli artt. 1, 3 e 4, s’impone dunque una competente conoscenza della scienza economica. Dunque, la privazione di sovranità monetaria prodottasi con l’adesione al Trattato di Maastricht – trattato che, in quanto ispirato dalla rifiutata concezione liberista dell’economia, svincola l’emissione creditizia dalla produzione[15] –, deve ritenersi in violazione della Costituzione, poiché il Popolo sovrano è privato di una sua fondamentale funzione, direttamente spettante alla Repubblica, quella della sovranità monetaria, necessaria per “il pieno sviluppo della persona umana”, per promuovere il diritto al lavoro e il progresso economico. Tutto ciò è cosa tanto più assurda se si considera che le banche centrali della tradizione c.d. liberale europea sono un consorzio delle principali banche private.
[1] Si pensi in particolare alla Rerum Novarum di Leone XIII.
[2] E’ espressione immediata della tradizione del ’48, il discorso del 20 settembre 2006 tenuto di fronte alle Nazioni Unite dal Presidente argentino Nestor Kirchner, che denunciando le politiche di ingerenza oligarchica alla sovranità delle singole Nazioni, sia da parte del Fondo Monetario Internazionale che da chi sta ricorrendo alla dottrina della “guerra preventiva”, ha sostanzialmente tenuto una lezione di arte del buon governo. Estratti del discorso a http://www.movisol.org/znews177.htm, 30 settembre 2006.
[3] Il sacerdote-educatore salesiano, Don Bosco, esprimeva questo principio di politica universale, chiedendo provocatoriamente agli educatori, come fosse possibile pretendere motivazione e disciplina, cultura e studio, a quei giovani a cui non veniva prima consentita la nutrizione, la pulizia, il vestiario.
[4] L’art. 41, 3° comma, Cost., recita: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
[5] Ciò è provato dal generale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione: ampliamento delle libertà individuali e sociali, aumento della capacità produttiva del Paese, conseguente aumento della capacità d’acquisto reale e degli spazi da dedicare al tempo libero, alla famiglia, alla cultura.
[6] http://www.ilcannocchiale.it/blogs/style/writer/dettaglio.asp?id_blog=22878&id_day=17&id_month=9&id_year=2006, 30 settembre 2006.
[7] Ibidem.
[8] In ciò, l’influenza della tradizione umanista, in particolare dell’Utopia di Tommaso Moro, non potrebbe essere più diretta.
[9] Il virgolettato è di Caretti-De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli editore, Torino, 1994, pag. 624.
[10] Il Codice di Camaldoli è il frutto di un lavoro prodottosi nel luglio 1943 per opera di un gruppo di intellettuali cattolici, sia laici che religiosi, presso il monastero benedettino di Camaldoli. In quel particolare contesto storico, l’obiettivo fu quello di fissare i principi fondamentali del pensiero sociale cattolico.
[11] A tal proposito, come insegnato dal Sistema Americano di economia politica, o sistema hamiltoniano, anche la moneta deve essere di proprietà dello Stato e per il proprio sviluppo, lo Stato sovrano, non dovrebbe avere necessità di fare ricorso al credito concessogli dalle banche private, quanto piuttosto fare ricorso al proprio potere di emissione monetaria.
[12] Invero, anche nella produzione concettuale di Platone e Campanella, pensatori sicuramente appartenenti alla tradizione umanista non materialista, si parla di comunione dei beni.
[13] La questione creditizia è sempre stata centrale nella storia dell’uomo. Si pensi a come questa è trattata da Platone ne Le leggi o dalla dottrina cattolica. Esemplare, al fine di un corretto approccio epistemologico alla questione, è la tragicommedia shakespeariana de Il mercante di Venezia, dove le figure di Shylock e Antonio esemplificano i due antitetici modi di relazionarsi al rapporto di credito-debito.
[14] Ibidem, Caretti-De Siervo, pag. 118.
[15] Concepire il livello finanziario (emissione monetaria e creditizia) in modo svincolato da quello produttivo, è foriero di tutti quei mali tipici di una concezione formalista della realtà, che non consente di vedere la sostanza delle cose. Questa errata concezione dell’economia è tornata in voga in occidente, in modo pressoché incontrastato, dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. La conseguenza più immediata di tale concezione è la nascita incontrollabile di bolle speculative a tutto discapito di produzione e lavoro (economia fisica). Esemplari, quanto deplorevoli precedenti storici di ciò, furono la Francia di John Law, nonché la fase maturata tra fine ‘800 ed il 1932 a cui Franklin Delano Roosevelt pose fine.


Fonte:
Sintesi Dialettica per l'Identità Democratica

Morire di Politica

Umori, cultori e protagonisti degli Anni di Piombo


mercoledì 24 aprile 2013

Inchiesta sulla miseria


La libertà è esaltata dai ladroni.
La sincerità dai falsi.
Il diritto dai spergiuri.
La verità dai mendaci.
L'unica esaltazione di cui andar fieri è la miseria
(Elmoamf)

L ’inchiesta parlamentare sulla miseria del 1953


"Il Parlamento deve acquisire la conoscenza delle condizioni di miseria del popolo italiano e dei mezzi per vincerle definitivamente con una sua diretta indagine, condotta rapidamente all'infuori di quei limiti, di quelle preoccupazioni, di quell' amor proprio di ufficio che impacciano l'azione del potere esecutivo e dei funzionari, anche quando siano animati dai propositi della maggiore obiettività": con queste parole il 28 settembre 1951 i deputati Vigorelli, Cornia, Tremelloni, Saragat, Zagari, Chiaramello e Bellinardi depositavano alla Camera la proposta per un'indagine parlamentare sulla miseria del popolo italiano e sui modi per combatterla.
Arretrata economicamente e messa in ginocchio dalla guerra, l'Italia attraversava un periodo di crisi politica e sociale: molte industrie divennero improvvisamente inattive, a causa della svalutazione della lira si verificò un conseguente rincaro del costo della vita e a livello popolare si diffuse un grave disagio che portò alla formazione di nuovi partiti e alla trasformazione di quelli già esistenti. In questo contesto si sentì l'esigenza di avere un quadro completo delle condizioni di vita degli oltre tre milioni di italiani poveri al fine di attuare le riforme adatte a risolvere i problemi che affliggevano questa parte della società. In particolare vi era l'urgenza di una riforma assistenziale perchè innumerevoli erano gli enti di sostegno pubblici e privati scoordinati e del tutto inadeguati a rispondere ai bisogni delle numerose categorie di indigenti, inoltre l'inefficienza di tali enti causava un inutile spreco di risorse pubbliche che doveva essere eliminato.
Il lungo dibattito sulla riforma assistenziale tenuto alla Camera nel dopoguerra, portò all'istituzione di una Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla miseria composta da 21 deputati di tutti gli schieramenti, tra questi figuravano Ezio Vigorelli, Presidente dell'Associazione nazionale enti di assistenza (Anea) , e Lodovico Montini cui vennero affidati rispettivamente i ruoli di Presidente e Vicepresidente della Commissione. Lo scopo dell'inchiesta, deliberata dalla Camera il 12 ottobre 1951, era studiare il fenomeno della miseria per individuare le cause che la producono e proporre al Parlamento provvedimenti concreti per eliminarla. Con quest'indagine ci si proponeva altresì di indagare il sistema assistenziale e quello previdenziale per capire se erano ancora idonei a svolgere le loro funzioni. Ci si voleva inoltre soffermare su quali disposizioni legislative dovevano essere abolite, perchè non più rispondenti ai bisogni per cui erano state create, e quali introdurre per modernizzare la politica sociale nel rispetto della Carta Costituzionale.
Un progetto ambizioso dunque, ma anche necessario visto l’alto livello di diffusione della miseria. Un'inchiesta di cui lo stesso De Gasperi, allora Presidente del Consiglio, riconobbe l'importanza e che merita di essere ricordata e valorizzata perchè in Italia senza autorevoli precedenti. Nel nostro Paese infatti, al contrario di quanto accadeva in America e Gran Bretagna dove l'approvazione di ogni legge era preceduta da inchieste svolte da parlamentari competenti, il metodo dell'inchiesta parlamentare non era, e non lo sarebbe stato mai, ritenuto indispensabile in quanto le indagini svolte prima della guerra non avevano raccolto dati particolarmente innovativi e tali da trarre utili conclusioni, cosa che fece invece quest’inchiesta.
Come e quali dati raccolse la Commissione d'inchiesta sulla miseria? E a quali conclusioni giunse? Prima di rispondere a queste domande è utile soffermarsi sulle non poche difficoltà che la Commissione incontrò nello svolgimento del suo lavoro. Essa fu nominata otto mesi dopo l'approvazione dell'inchiesta, in un momento politico delicato quale la fine della I legislatura in cui i deputati erano distratti dagli impegni che essa comporta: campagna elettorale, disputa sullo scioglimento della Camera, oltre il periodo feriale del 1952. Le fu inoltre concesso poco meno di un anno per indagare il complesso fenomeno della miseria, difficile da studiare anche a causa delle enormi differenze economiche, sociali ed ambientali che esistevano tra le regioni del nostro Paese. Nonostante le oggettive difficoltà l'indagine fu portata a termine e riuscì a sopperire alla scarsità di dati disponibili sulla povertà in Italia. Per la prima volta questo fenomeno fu misurato scientificamente attraverso indagini statistiche svolte in collaborazione con l'Istat, tale misurazione diede grande valore all'inchiesta e dimostrò che in campo sociologico e statistico erano stati fatti notevoli progressi.
Le indagini statistiche rilevarono il tenore di vita della popolazione attraverso aspetti quali l'abitazione, l'alimentazione e l'abbigliamento ed evidenziarono che migliaia di persone vivevano in condizioni disumane: c'era chi divideva il proprio alloggio con gli animali, chi viveva in grotte, soffitte o cantine, i più fortunati convivevano in una sola stanza con più di quattro persone. Scrive Vigorelli nella relazione generale dell'inchiesta: " 870 mila famiglie non consumano né carne, né vino, né zucchero; oltre un milione di famiglie consumano quantità minime di zucchero e vino e niente carne; più di 3 milioni e 200 mila famiglie non raggiungono un tenore alimentare discreto e 590 mila famiglie dispongono in media di calzature miserrime o misere" (Atti, vol II, p.61) .
Dov'era per queste persone il supporto dello Stato? C’era, ma era inefficiente. E' per questo motivo che Vigorelli e colleghi sostennero con fervore che bisognava trasformare il settore assistenziale "in un vero e proprio sistema di sicurezza sociale" (vol II, p.13) ed è su questo aspetto che concentrarono le loro proposte legislative.
Sfogliando le oltre 2000 pagine dei 14 volumi che formano gli Atti dell’inchiesta in cui la Commissione ha raccolto i risultati del suo lavoro, è possibile avere una fotografia dei problemi sociali dell'epoca.
Il I volume, frutto della penna del Presidente Vigorelli, contiene un relazione generale sull'inchiesta: spiega come, da chi e quando è stata svolta, gli aspetti considerati, le conclusioni a cui si è giunti e le proposte di soluzione. La Commissione ha diviso l'oggetto di studio in quattro settori: "assistibili, legislazione, organi ed enti, mezzi finanziari" (vol II, p.13) e su questi ha compiuto le indagini tecniche riportate nei volumi II, III, IV, e V.
In particolare nel II volume si trova risposta alle tre domande che hanno dato vita all'inchiesta: "Qual è lo stato attuale della miseria?", "Quali sono le condizioni di vita delle classi povere?", "Quanta e quale parte della popolazione ha diritto all'intervento riparatore dello Stato ai sensi dell'art. 38 della Costituzione e per quali cause e in quali condizioni?" (vol II, p.13).
Il III volume ricostruisce il labirinto della legislazione assistenziale italiana sottolineando le lacune delle forme di assistenza previste dalla legge.
Nel IV volume, invece, vi è la relazione sulle indagini svolte dalla Commissione, in collaborazione con l'Anea e l'Istat, sulle principali attività di assistenza pubblica: l' attività degli ECA (Enti Comunali di assistenza), dei Patronati scolastici, dei Consorzi provinciali antitubercolari. Il fine era capire i metodi ed i criteri di assistenza da essi utilizzati.
Nella relazione sui mezzi finanziari statali utilizzati per l'assistenza si evidenziava che la spesa pubblica per fini assistenziali era in costante aumento ma ciò non si traduceva in un miglioramento delle prestazioni fornite ai bisognosi. E' questo l'argomento del V volume degli Atti.
La lettura del VI e del VII volume è molto interessante perchè vengono messi in luce i diversi aspetti della miseria di grandi città come Napoli, Roma e Milano e di alcune "zone depresse" quali la Sicilia e la Calabria. A pagina 143 del VI volume si legge: " La conoscenza di un fenomeno come quello della povertà e della miseria che, prescindendo da ogni considerazione di ordine economico, è pur sempre un fenomeno umano, non avrebbe mai potuto ritenersi sufficientemente attinta se non completata da personali contatti con il mondo dei poveri e dei miseri". Per questo i membri della Commissione, divisi in delegazioni, hanno condotto personalmente le inchieste nelle zone scelte come campione, e spesso hanno acquisito notizie dai bisognosi stessi. Non si può capire il fenomeno della miseria se non ci si è mai avvicinati ai poveri, se non si sa come essi mangiano o dormono, se non se ne conoscono le aspirazioni, le sofferenze e le reazioni verso il mondo.(Vol VI)
Il quadro conoscitivo della miseria è stato poi completato con studi monografici raccolti nei volumi VIII, IX, X, XI e XII. Le monografie, scritte da esperti dell'epoca, affrontano particolari aspetti economici, giuridici e psicologici della miseria come la sottoretribuzione, il rapporto tra prostituzione e miseria, il problema della delinquenza minorile e delle sue componenti economiche o il ruolo dell’assistenza sanitaria agli indigenti nella legislazione italiana.
Il penultimo volume degli Atti della Commissione, il XIII, ospita un censimento degli enti di assistenza pubblica e privata, tra questi compaiono anche gli enti sottoposti all'autorità ecclesiastica e quelli privi di riconoscimento giuridico.
Infine, nell' ultimo volume, sono conservati i risultati dell'indagine sperimentale sulla civiltà contadina svolta dall' on. Gaetano Ambrico. Lo scopo era conoscere le condizioni demografiche, sociali ed economiche di un comune agricolo arretrato economicamente per poi estendere i risultati dell'indagine ai comuni con condizioni simili. Per l'inchiesta fu scelto un comune della Basilicata, Grassano : " un paese povero con una popolazione povera" (vol XIV, p. XXVII).
Questi volumi, anche se conosciuti quasi esclusivamente da studiosi ed esperti, costituiscono uno dei documenti più importanti della storia italiana. Purtroppo il lungo e duro lavoro della Commissione non portò a concrete riforme sociali, ciò nonostante le proposte di soluzione avanzate e la speranza dei deputati che l'inchiesta si distinguesse " da altre simili iniziative del Parlamento italiano nell'epoca prefascista" (vol I, p.17), le quali non avevano mai avuto sbocchi politici.
Vigorelli, poco tempo dopo la fine dei lavori, propose l'istituzione di una nuova Commissione che avrebbe dovuto indagare la povertà sulla base dei risultati raggiunti dalla precedente inchiesta: il fine era giungere all'attuazione di riforme utili. Il progetto di Vigorelli non fu mai approvato ma restano attuali le sue parole: "L'ordine e la pace sociale sono strettamente legati alla eliminazione della miseria; la ricchezza di taluni offende la triste vicenda dei bisogni materiali e delle umiliazioni dei molti, a tal punto che l'esistenza e l'affermazione della democrazia sono condizionate dallo sforzo di elevamento degli indigenti e dalla eguaglianza sociale di tutti i cittadini dinanzi al diritto ad una vita umana dignitosa" ( vol I, p.215).

Di seguito si riportano la struttura dell’opera ed alcuni estratti degli Atti della Commissione tratti dai volumi I, II e VI. Nel primo estratto si evidenzia come è stata svolta l’indagine e quali criteri sono stati utilizzati. In seguito vi sono alcune tabelle che riassumono le condizioni di vita delle classi povere. Si propongono infine al lettore aspetti particolari della miseria a Napoli e Roma, le conclusioni dell’inchiesta e le proposte di soluzione avanzate dalla commissione.



dott.ssa Vincenza Simonte

Liberamente tratto da:

Fonte:


domenica 21 aprile 2013

L'Impegno Politico

L'impegno politico lambisce le rive della ns coscienza, poiché quando chiamati (in causa - per una causa - per la causa) come un'onda in piccolo sommovimento... ci tiriamo indietro.
E quando il vento (a favore, contrario, vorticoso) soffia... come vittime di un "cavallone" siamo travolti.

L'impegno politico non è solo scranno elettorale od attivismo popolare e populista, itinerante, comiziante e demagogico.

L'impegno politico è e dovrebbe essere, soprattutto, "responsabilità" e "divulgazione".
Sostegno sincero e senza remore delle idee.

L'impegno politico è serietà, coerenza, fiducia: professionale e umana.

L'impegno politico è mettersi in gioco e non tirarsi indietro alle prime difficoltà. Non demordere, non cedere, non soccombere.

L'impegno politico è fare figuracce ed al tempo stesso mostrare il lato profondo, coraggioso e forte delle proprie debolezze ma anche delle proprie posizioni, proposizioni e prospettive.

L'impegno politico è la condivisione con il prossimo delle proprie conoscenze ed il tentativo di trasformare quelle conoscenze in benessere per tutti.

Questo è il mio impegno politico quotidiano che affronto con fatica ogni giorno.

Il rapporto con il prossimo che nel mondo del lavoro si chiama "pubblico" può e deve passare anche e soprattutto dalla condivisione: di stati d'animo, di problematiche, di fatiche ma anche di quella forma essenziale di comunicazione o forse rivoluzione od ancora e meglio evoluzione culturale che viene incarnata indiscutibilmente dalle "idee".

Spronare se stessi e l'interlocutore a ragionare e non fermarsi all'incoerenza dell'opportunismo.

Andare oltre il particolare od il particolare interesse ed abbracciare i bisogni del prossimo per condividerne insieme il peso, l'onere, il dovere come il piacere, il diritto, l'onore!

Un saluto,
Elmoamf

giovedì 18 aprile 2013

Alfred Müller-Armack e L'Economia Sociale di Mercato

Le intuizioni nascono da istantanee di memoria inconsce e così come alla mente tornano frugali, dopo innumerevoli inverni trascorsi nel letargo dei propri ricordi, così nell'intelletto risvegliano riflessioni degne di analisi, elaborazione e condivisione.

Quest'oggi il caso mi ha riportato alla mente la figura di Konrad Adenauer, cancelliere della Germania Occidentale dal 1949 al 1963, leader carismatico della CDU tedesca e tra i principali padri fondatori della Comunità Europea.

E così, per l'inevitabile gioco dei tasselli connessi, tutto ciò mi ha ricondotto al modello dell' "Economia Sociale di Mercato". Quel modello alla base della ricostruzione tedesca del secondo dopoguerra e richiamato, nei suoi enunciati, anche dal Trattato sull'Unione Europea (art.3 comma 3 del TUE)... seppur di sfuggita... oserei personalmente aggiungere.

Ciò nonostante, il pensiero e l'analisi teorica del modello rispecchiano, a mio avviso, una di quelle possibili sintesi tra il distorto meccanismo del libero mercato e l'istrionico meccanismo della burocrazia dirigista, restituendo allo Stato quel necessario ruolo di arbitro, fonte di equilibrio tra gli eccessi e le corruzioni equamente tra i primi due distribuiti.

Richiamandosi ai principi fondanti della ns Costituzione e perseguendo sinceri e concreti programmi volti al rilancio di una sana idea di comunità, di una sana idea di condivisione e di benessere comune... volenterose figure di spessore accademico, culturale ed istituzionale come imprenditoriale, sociale e popolare potrebbero unire le loro forze per gettare le basi di una nuova rinascita dello Stato!

Allontanandosi da quel concetto malato in cui oggi si è trasformata l'Europa dell'Euro e da quel mostro tecnocratico ed oligarchico che rappresenta la sua Commissione. Un'Istituzione non figlia del popolo o della presunta democrazia ma autoreferenziale. Un'Istituzione che non si ponte interrogativi sul destino altrui ma solo sulla sopravvivenza (anacronistica?) di se stessa e delle sue perverse regole. Un'Istituzione che impone e vuole imporsi come Dogma al di là evidentemente anche dell'onnipotenza religiosa.

La forza di un'idea potrebbe esprimersi nell'autorevolezza o nell'autorità. Lasciare che sia la seconda strada quella chiamata a condurci nella vita e nel ns intimo destino, ritengo, non sia un'ottima scelta. Sarei più propenso a valutare con maggior entusiasmo la prima!

Propongo, pertanto, di seguito un articolo sulla figura o meglio sul "pensiero" di Alfred Müller-Armack, uno dei principali esponenti della Teoria dell'Economia Sociale, così come pubblicato sul sito http://www.caravella.eu/.

Buona lettura ed un saluto,
Elmoamf


L’economia sociale di mercato secondo Müller Armack

di Francesco Forte *
1. Si è molto discusso del significato dell’espressione “economia sociale di mercato”, sostenendo, alternativamente, che esso è un ossimoro in quanto l’economia di mercato è incompatibile con una costituzione sociale o che esso è una espressione indeterminata, suscettibile di tanti diversi significati. Fra questi, vi è chi ritiene che sia da accogliere la tesi per cui con il termine “sociale” si modifica e corregge il termine economia di mercato. Così si tratterebbe di una formula che comporta sostanzialmente l’intervento pubblico per modificare l’economia di mercato. Ma questa tesi è completamente errata e fuorviante. L’economia sociale di mercato, secondo la definizione che ne dà il suo principale teorico, vale a dire Alfred Müller Armack, che ne coniò il termine e vi dedicò tutta la sua attività scientifica e politica, come collaboratore di Ludwig Erhard, ha come base fondamentale l’economia di mercato di concorrenza e la sua componente sociale non comporta modifiche a questo modello economico, ma lo presuppone e vi ci si deve conformare. Lo scrive in modo molto chiaro Müller Armack nel saggio su Il contenuto umano dell’economia sociale di mercato. In esso egli descrive le origini e la formazione della base teorica dell’economia sociale di mercato con riferimento alla scuola di Friburgo di Walter Eucken Franz Böhm di Ordo, che alla fine degli anni ‘30 e all’inizio degli anni ‘40 del 1900 concepì “l’ordine della concorrenza come mezzo per organizzare le grandi società di massa sulla base di un nuovo progetto”.
Ed aggiunge che contemporaneamente Alexander Rüstow Wilhelm Röpke, indipendentemente dalla Scuola di Friburgo, avevano sviluppato il loro concetto di una politica di economia di mercato e che le idee di queste scuole sono confluite in un progetto comune. Su questa base si inseriva la sua proposta, di contrapporre consapevolmente alla guida dal centro una concezione che in quanto economia sociale di mercato rivendicasse il diritto di creare un nuovo ordine economico basato su interventi di politica economica conformi al mercato e su un rafforzato sistema di aiuti sociali sorretto dal sistema di mercato”. Ho messo in corsivo l’espressione “conformi al mercato”, che chiarisce che il modello sociale dell’economia sociale di mercato non intende modificarlo, ma conformarsi ad esso, accogliendone i principi.
2. Prima di procedere in tale dimostrazione è importante chiarire che l’economia sociale di mercato non è, nel pensiero di Müller Armack e, penso, in quello di chi vi aderisce, una concezione teorica puramente economica.  La preferenza per il mercato di concorrenza, come ordine economico, nasce dalla concezione antropologica della limitatezza dell’uomo, che deve accettare le condizioni storiche in cui si trova e non può pretendere di costruire un sistema perfetto mediante l’organizzazione sociale. Le nostre conoscenze sono limitate e gli uomini, come dice Pascal, non sono né santi né bestie. Ai fini della politica economica di oggi deriva da questa impostazione che tutti i tentativi di preprogrammare la storia su un determinato obiettivo-finale sono tanto assurdi quanto l’idea finora in piedi in tutti i paesi comunisti secondo cui la statizzazione dei mezzi di produzione porta alla svolta decisiva nell’ordine della società.
Nello stesso tempo, a riflessione sulla natura umana e sulla storia, genera la convinzione che non si possa concepire l’evoluzione storica come predeterminata dai dati economici o da altri fattori oggettivi, perché gli uomini non sono atomi od automi, ma hanno una loro intrinseca libertà di scelta, che diventa tanto più rilevante quanto più la società assicura condizioni per realizzarla.  Secondo Müller Armack pertanto “La tesi della totale vincolatività della classe per l’uomo, per come è radicata in tutta la dottrina marxista e neomarxista, non coglie la forma dell’essenza dell’uomo, che non può essere propriamente definito come un essere fissato storicamente a questo o quel gruppo sociale, ma si colloca come essere storico all’interno della concorrenza tra i vari raggruppamenti.  … I raggruppamenti sociali in cui sta l’uomo sono del tutto flessibili. …I gruppi sociali stanno in una società aperta, in cui anzi le posizioni dei singoli variano a seconda delle decisioni e degli sviluppi storici.  Naturalmente, rimane un residuo di raggruppamenti, che diventano così variabili storiche”.
3. Dal punto di vista dell’analisi di economia positiva, dunque, l’economia di mercato di concorrenza, con regole del gioco che ne assicurino il funzionamento, è la sola soluzione preferibile. Ma perché è desiderabile che essa si completi con un ordinamento sociale conforme al mercato? Le risposte sono, nel pensiero di Müller Armack, come del resto in quello di Eucken e del gruppo di Friburgo e in quello di Röpcke, di ordine etico e si rifanno, in larga misura, ai valori del pensiero cristiano, nella versione liberale, che si collega anche a quella smithiana della simpatia. In Müller Armack converge in questa concezione, anche quella del socialismo liberale. Nella confluenza del pensiero cristiano, di quello liberale e di quello del socialismo liberale, la concezione di Müller Armack acquista un interessante significato politico, che pervade la sua tesi per cui l’economia sociale di mercato è uno “stile” di natura irenica. Il conflitto apparente fra queste diverse dottrine si risolve in uno “stile” di politica economica in cui esse possono confluire. La nozione di “stile” che Müller Armack accoglie in luogo di quella di “modelli” di politica economica, implica in effetti che non vi è un modello rigido ma, in analogia con gli stili dell’arte, vi sono varie espressioni di alcuni principi generali, che possono variare. Ed è probabilmente per questa ragione che alcuni economisti, in buona fede, negano che la nozione di economia sociale di mercato sia determinata.
Mi permetto di osservare che tale affermazione è insieme corretta, ma anche fondamentalmente errata. È corretta nel senso che vi sono più modelli di economia sociale di mercato. Ma solo alcuni sono compatibili con l’economia sociale di mercato come stile, che esige che gli interventi sociali siano conformi al mercato e che il modello di mercato sia quello di concorrenza e che vi sia un ordinamento per difendere la concorrenza dai monopoli e dagli abusi del mercato. La nozione di ordinamento irenico per l’economia sociale di mercato non ha solo un valore di politica economica a livello di conflitto fra dottrine politiche, ma anche un valore più ampio, con riguardo alla composizione di conflitti sociali e a quelli fra i popoli, con riferimento sia alle guerre commerciali, che a quelle propriamente dette. In questo senso l’Unione europea e l’Unione economica e monetaria europea, in quanto fondate sullo stile dell’economia sociale di mercato sono modelli irenici.
4. Müller Armack stesso nel corso degli anni, pur rimanendo sostanzialmente fermo sulla tesi che gli interventi sociali debbono essere conformi al modello di economia di mercato di concorrenza provvisto di un ordinamento che la garantisca, ha presentato schemi di politiche sociali fra loro differenti, che costituiscono, si potrebbe dire, i due modelli di base, entro cui sono possibili diverse varianti intermedie, che realizzano le istanze di entrambi.  Il punto di partenza, come scrive Müller Armack nel saggio su “L’elemento sociale nell’economia sociale di mercato” sta nella conformità ai principio fondativi dell’economia di concorrenza, consistente nel senso di responsabilità, nel diritto di ciascuno alla proprietà e al compenso in base al suo merito economico. “Come il sistema che premia il lavoratore e l’impiegato e che si mostra all’altezza, nel modo più efficiente possibile, anche delle nuove sfide tecnologiche”. Ma ciò non basta, dato che esistono le diseguaglianze sociali e i problemi delle contingenze economiche. Da ciò consegue che “Abbiamo necessità di una divisione di funzioni assolutamente chiara tra i compiti del sistema dei prezzi e i compiti del compromesso sociale tra le persone… Il sistema dei prezzi all’interno di questa concezione ha esclusivamente il compito di guidare il processo di produzione. Solo così rimane passabilmente garantito che venga prodotto ciò che, nella originaria armonizzazione quotidiana di tutti i consumatori, si dimostra essere, grazie alla loro disponibilità a offrire per questo il loro prezioso denaro, quel che effettivamente corrisponde più da vicino ai loro bisogni”.
Tuttavia, se non si ha un chiaro modello per gli interventi sociali, “quest’economia di mercato subisce la minaccia di diventare…  un sistema che procura i premi più alti a chi si fa largo nel modo più minuzioso possibile attraverso la giungla di leggi sociali particolari fatte con buone intenzioni e sa utilizzarle nel modo più raffinato. In sintesi, diventa una minaccia il pericolo che venga premiato, alla fine, nel modo più elevato possibile, non più l’abile pioniere, ma lo scroccone più furbo e senza scrupoli”. Pertanto “Le correzioni sociali incondizionatamente necessarie in ordine alla distribuzione dei redditi quale deriva anzitutto dal processo di produzione dovrebbero però avere possibilmente solo la forma di trasferimenti diretti di denaro, quindi di transfer chiari. … Solo così il problema della redistribuzione può essere inquadrato e rappresentato sul piano politico.
Solo così quanti ricevono un’agevolazione, quindi i malati, gli anziani e gli altri più deboli, oltre ad un reddito reale più elevato ottengono al contempo, anche come cittadini maggiorenni, la libertà di decidere essi stessi individualmente per che cosa essi vogliono utilizzare l’agevolazione. Solo così rimane loro risparmiato che la burocrazia decida ciò che dev’essere buono per i cittadini. Solo così viene effettivamente elevato il peso delle voci dei più deboli nella decisione sulle strutture della produzione.  Solo così rimane passabilmente garantito che ciò che viene molto richiesto dai più deboli, per esempio l’assistenza per i malati e la previdenza per la vecchiaia, venga realizzato il più possibile senza sprechi e venga reso accessibile”. Questo modello, come si nota, comporta che la sanità consista soprattutto nella possibilità di accedere gratis alle medicine, ai medici e agli ospedali e cliniche di propria scelta, con un buono a ciò destinato e altrettanto vale per l’istruzione, mentre anche il sistema delle pensioni dovrebbe comportare la scelta fra diverse assicurazioni.
Esso è, per altro, chiaramente utopico, date le strutture delle assicurazioni sociali. Di esso il nucleo centrale è il principio che la sicurezza sociale e il diritto all’istruzione gratuita o semi gratuita non siano gestiti da una burocrazia pubblica, senza libertà di scelta del singolo. E quindi la tesi di Müller Armack per la sanità implica che in gran parte il governo regionale debba avvalersi di strutture private convenzionate e che il cittadino qualsiasi possa scegliersi il servizio di ciascuna di queste strutture nella sua Regione o in ogni altra Regione, che possa avvalersi di un buono scuola per la scelta della scuola a lui gradita e che, accanto alla previdenza obbligatoria pubblica, possa scegliere una previdenza integrativa a sua scelta che ha identici benefici fiscali.
5.In un altro saggio, Müller Armack richiama gli 11 punti che egli aveva prospettato nel 1947 per l’economia sociale di mercato, come base per gli ulteriori sviluppi.  Essi sono i seguenti.
1. Creazione di un ordinamento d’impresa di carattere sociale, che inquadri il prestatore d’opera come persona e come lavoratore e gli conceda un diritto di compartecipazione (Mitgestaltung) senza limitare al riguardo l’iniziativa d’impresa e la responsabilità dell’imprenditore.
2.   Attuazione di un ordine della concorrenza concepito come dovere di tipo pubblico, volto ad imprimere all’aspirazione al lavoro da parte del singolo il necessario orientamento verso il bene comune.
3.   Perseguimento di una politica antimonopolistica per combattere il possibile cattivo uso del potere nell’economia.
4.   Realizzazione di una politica occupazionale di carattere congiunturale, con lo scopo di dare al datore di lavoro, nel quadro di ciò che è possibile, la sicurezza nei confronti dei contraccolpi della crisi. Va previsto al riguardo, al di là di provvedimenti di politica creditizia e finanziaria, un programma di investimenti statali dotato di ragionevole sicurezza per quanto riguarda il bilancio.
5.   Compromesso sui redditi tipico dell’economia di mercato, per annullare irragionevoli differenze di reddito e di proprietà attraverso la tassazione e i sussidi alle famiglie, gli aiuti ai minori e gli affitti per quanti ne hanno necessità dal punto di vista sociale.
6.   Politica residenziale ed edilizia sociale.
7.   Politica sociale in riferimento alla struttura delle imprese.
8.   Previsione di un’iniziativa personale di tipo cooperativo, per esempio nell’edilizia, all’interno dell’ordine dell’economia.
9.   Potenziamento dell’assicurazione sociale.
10. Pianificazione delle città.
11.Salari minimi e assicurazione del singolo salario attraverso accordi tariffari su base libera. Egli aggiungeva: “La realizzazione di un ordine economico avrà sempre il doppio aspetto di mostrarsi aperta nei confronti di sviluppi nuovi e futuri, ma nondimeno garantire il mantenimento degli sperimentati princìpi di fondo di un ordine improntato a libertà e compromesso sociale”. E per dare al nostro ordinamento di vita il carattere di una vera e propria costituzione dell’economia sociale di mercato, richiamava, come discrimine, il pensiero di Friedrich Von Hayek nella sua opera “Die Verfassung der Freiheit”, cioè laCostituzione della libertà. E sottolineava l’importanza essenziale dell’auto responsabilità dei singoli e la necessità di riconoscere che “il nostro moderno sistema economico ha portato successi e progressi per la più ampia fetta di popolazione, per esempio l’annullamento della miseria e della fame e anche la diminuzione della dipendenza; ma ciò che faceva funzionare il tutto era il lavoro delle minoranze, a prescindere se fossero ricercatori, tecnici, professori, imprenditori, politici”.
(Tratto da “Libertas. Cattolici per la Libertà. Trimestrale di cultura politica ed economica”)
* Professore emerito di Scienze delle Finanze, “La Sapienza”, Roma



venerdì 12 aprile 2013

Imperialismo e Land Grabbing

Continuerò a depredare la Tua Terra affinché divenga non solo il mio sostentamento e tu il mio schiavo ma e soprattutto affinché ciò divenga il mio assoluto potere sul destino!

L'imperialismo ed il Land Grabbing!

Buona visione ed un saluto,
Elmoamf








Imperialismo e Impero

Pubblico, nella speranza che non me ne vogliano e pronto a "restituirglielo"...in caso, un pezzo profondamente interessante pubblicato da Eurasia, rivista online e non di studi geopolitici.

Il pezzo è assai calzante, in termini di corsi e ricorsi storici come in un'ottica sempre più necessaria (semmai ce ne fossimo dimenticati) d'analisi dei cicli socio-politico-economico-giuridici da un punto di vista più ampio e profondo rispetto al solito e ristretto cortile della contingenza e del campanilismo culturale.

In altri termini, società e storia evolvono secondo regole e principi che traggono origine, fonte ed ispirazione dal passato, gettando poi le basi e generando a loro volta regole e principi utili per il futuro.

Gli attori del presente, nel perfetto sincrono universale, sono al contempo figli e genitori della realtà.

Quel'è spesso il loro limite?

Perdersi nell'ipocrisia dell'assolutismo, foriero di considerazioni astruse sul proprio dominio quotidiano e partigiano dell'opportunismo individualista.

Come ho avuto modo di asserire in altro loco...

 L'ipocrisia è la madre di tutti gli olocausti.

E qui aggiungerei quanto segue...

L'opportunismo è il padre di tutte le catastrofi.

Un saluto e buona lettura.
Elmoamf




IMPERIALISMO E IMPERO

XXIX (1-2013) :::: Claudio Mutti :::: 13 marzo, 2013 :::: Email This Post   Print This Post
IMPERIALISMO E IMPERO


L’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”
Imperialismo è un lemma del vocabolario moderno; neologismi di conio relativamente recente sono per lo più le voci formate mediante il suffisso -ismo, che nella fattispecie viene ad aggiungersi all’elemento radicale dell’aggettivo imperiale specializzandone il valore semantico, per indicare la tendenza di uno Stato ad espandersi su un’area geografica più vasta e ad esercitarvi il suo predominio politico, militare ed economico.
Non è infatti trascorso un secolo dal 1920, quando Lenin notava come da un paio di decenni, per qualificare un’epoca di relazioni internazionali inaugurata dalla guerra ispano-americana (1898) e dalla guerra anglo-boera (1899-1902), “nella pubblicistica tanto economica quanto politica del vecchio e del nuovo mondo ricorre[sse] sempre più di frequente il termine diimperialismo1 e citava come esemplare un’opera intitolata appunto Imperialism, che l’economista inglese J. A. Hobson aveva pubblicata nel 1902 a Londra ed a New York. Volendo quindi indicare la connessione del fenomeno imperialista con le sue caratteristiche economiche fondamentali, Lenin formulava la celebre definizione dell’imperialismo quale “era del capitale finanziario e poi dei monopoli”2. “Uno stadio specifico dello sviluppo dell’economia mondiale capitalista”3, ribadirà Paul M. Sweezy.
Non appare sostanzialmente diversa da quella del capo bolscevico la diagnosi del fenomeno imperialistico fatta nel medesimo periodo da un esponente del pensiero controrivoluzionario, il conte Emmanuel Malynski, che definiva gl’imperialismi come “megalomanie nazionalistiche valorizzate ingegnosamente dalla rapacità capitalista”4. Convinto difensore dell’idea imperiale e appassionato apologeta degli edifici geopolitici usciti distrutti dalla guerra mondiale e dalla rivoluzione bolscevica, l’aristocratico polacco scriveva infatti: “Nella storia contemporanea, così come nei due decenni che immediatamente la precedono, noi vedremo i nazionalismi delle grandi potenze orientarsi decisamente nel senso del capitalismo e degenerare rapidamente in imperialismo economico. Essi si troveranno così su di un piano inclinato e verranno trascinati da una concatenazione di cause e di effetti verso l’imperialismo politico. In questo modo, alla fine, il capitalismo internazionale avrà condotto le nazioni alla più gigantesca guerra mai esistita”5. Sulla stessa linea del Malynski si colloca Julius Evola, allorché denuncia “la contraffazione imperialistica dell’idea imperiale”6 come il prodotto di ideologie “di tipo nazionalistico, materialistico e militaristico”7 o di interessi economici.
Considerato da una prospettiva puramente storica, l’imperialismo può essere oggi definito come la “politica delle grandi potenze europee che tendeva a costituire degli imperi coloniali dominando territori extraeuropei da cui trarre materie prime, forza lavoro e in cui far pervenire le produzioni industriali nazionali”8, sicché la sua età “si può grosso modo delimitare temporalmente tra il 1870 e lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando la spartizione coloniale si era sostanzialmente conclusa”9.
Tuttavia la categoria di “imperialismo” è stata usata anche in relazione alla politica esercitata dagli Stati Uniti d’America nei periodi storici successivi alla prima ed alla seconda guerra mondiale; la qual cosa non fa che confermare che l’imperialismo è un fenomeno tipico dell’età contemporanea, corrispondente ad “uno stadio specifico dell’economia mondiale capitalista”10 ed assimilabile a quella internazionalizzazione del capitalismo che è culminata nella globalizzazione.


Fenomenologia dell’Impero
Per quanto riguarda la categoria di Impero, non è facile definirla, data la grande varietà delle realtà storiche che ad essa vengono ascritte. Limitandoci a considerare quelle che hanno preso forma nell’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente, sembra di poter constatare che a creare il modello originario dell’ordinamento imperiale sia stata la civiltà dell’antico Iran, la quale probabilmente attinse dal mondo assiro e babilonese la concezione della monarchia universale. Se entro i confini della Persia il fondamento di tale concezione è la dottrina dell’onnipotenza di Ahura-Mazda, il dio creatore del cielo e della terra che ha assegnato al “Re dei re” la signoria su popoli diversi, in Babilonia e in Egitto i sovrani achemenidi fanno riferimento alle forme religiose locali e in tal modo “assumono il carattere di re nazionali dei diversi paesi, mantenendo in ciascuno di quelli la tradizionale figura di monarca di diritto divino”11.
Il progetto di monarchia sovranazionale ispirato ad Alessandro dal modello persiano si realizza, attraverso i regni ellenistici, nell’Impero romano, che per oltre quattro secoli garantisce la convivenza pacifica e la cooperazione di una vasta comunità di popoli. I suoi fondamenti concreti sono il comune ordinamento legale (che convive con una molteplicità di fonti giuridiche)12, la diffusione della lingua latina (accanto al greco ed alle lingue locali), la difesa militare delle frontiere, l’istituzione di colonie destinate a diventare centri di irradiamento dell’influsso romano nelle province confinarie, una moneta imperiale comune (accanto alle monete provinciali e municipali), un’articolata rete stradale, i trasferimenti di popolazione.
In seguito alla deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente ed alla restituzione delle insegne imperiali a Costantinopoli, l’Impero romano continua ad esistere per altri mille anni nella parte orientale. “Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti principali dello sviluppo dell’impero bizantino. (…) L’impero, eterogeneo dal punto di vista etnico, fu tenuto unito dal concetto romano di stato e la sua posizione nel mondo fu determinata dall’idea romana di universalità. (…) Si forma tutta una complessa gerarchia di stati, al cui vertice è l’imperatore di Bisanzio, imperatore romano e capo dell’ecumene cristiana”13.
Ma due secoli e mezzo dopo che Giustiniano ha cercato di ristabilire la signoria universale riconquistando l’Occidente, un re dei Franchi cinge in Roma la corona imperiale. La solidarietà delle varie parti del Sacro Romano Impero – abitate da popoli gelosi delle loro identità etniche e culturali – si basa sui vincoli di sangue che uniscono l’imperatore ai sovrani a lui subordinati, nonché al giuramento di fedeltà con cui questi sovrani si legano all’imperatore. L’Impero carolingio non sopravvive più di un trentennio al suo fondatore; perché rinasca a nuova vita, occorre attendere l’intervento di una nuova dinastia, quella degli Ottoni, e il trasferimento della capitale da Aquisgrana a Roma.
Con Federico II di Svevia, l’Impero sembra recuperare la dimensione mediterranea. Se il Regno di Germania è un’immagine dell’Impero in quanto offre lo spettacolo di una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell’Impero federiciano presenta un quadro di differenze ancor più profonde: il trilinguismo latino-greco-arabo della cancelleria imperiale ben rappresenta un mosaico di popolazioni d’origine latina, greca, longobarda, araba e berbera, normanna, sveva, ebraica, le quali per di più appartengono a confessioni religiose diverse. Perciò Federico, dice un suo biografo, “riuniva in sé i caratteri dei diversi sovrani della terra; era il più grande principe tedesco, l’imperatore latino, il re normanno, il basileus, il sultano”14. Ed è quest’ultimo titolo a far risaltare quanto vi è di specifico nella sua idea imperiale: l’aspirazione a ricomporre l’unità di autorità spirituale e potere politico.
In seguito alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, l’eredità dell’Impero romano viene rivendicata da due nuove e distinte formazioni imperiali: mentre “l’Impero Romano greco e cristiano cade per risorgere nella forma di un Impero Romano turco e musulmano”15, generando così “l’ultima ipostasi di Roma”16, Mosca si prepara a diventare la “terza Roma”, poiché, come scrive Benedetto XVI, “fonda un proprio patriarcato sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium17.
Nell’Europa centrale e occidentale, il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica risente l’effetto della nascita dei primi Stati nazionali; ma il corso degli eventi sembra mutare con Carlo V, “campione di quella vecchia idea europea che appare oggi modernissima”18, quando l’impero fondato da Carlo Magno si libera dell’aspetto strettamente germanico che lo ha connotato dal XIV al XV secolo e tende a recuperare l’originario carattere sovranazionale per mantenerlo anche nei secoli successivi, fino al tramonto della Monarchia asburgica. Per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento l’Impero “fu la manifestazione storica di una forza centripeta che tese a unificare i vari regni nei quali la cristianità si era divisa nel corso del medioevo; la sua capacità di aggregazione, d’affermazione e poi di tenuta lascia ipotizzare l’esistenza di possibilità per la storia europea diverse rispetto a quelle che si sono concretizzate”19.
Con la pace di Presburgo, Francesco II rinuncia alla dignità di Sacro Romano Imperatore, che le conquiste napoleoniche hanno svuotata della corrispondente sostanza territoriale; al tempo stesso, si offre a Napoleone la possibilità di raccogliere l’eredità carolingia in un Impero di nuovo conio, un insieme continentale di territori tenuti insieme dalla potenza militare francese e guidati dai diretti fiduciari dell’Empereur. Così, perfino esponenti della vecchia aristocrazia europea sono disposti a vedere in lui “un imperatore romano – un imperatore romano francese, se si vuole, come prima era stato tedesco, ma pur tuttavia un imperatore, di cui il Papa sarebbe stato l’elemosiniere, i re i grandi vassalli e i principi i vassalli di questi vassalli. Un sistema feudale, insomma, col vertice della piramide che era mancato alla pienezza del Medioevo”20.


Ripensare l’Impero
Da questa sia pur limitata e sintetica rassegna storica, che dall’Europa potrebbe benissimo essere estesa ad altre aree della terra, risulta che l’Impero non è semplicemente una grande potenza politico-militare la quale esercita il proprio controllo su un’ampia estensione territoriale. In maniera più adeguata, l’Impero può essere definito come “un tipo di unità politica che associa delle etnie, dei popoli e delle nazioni diverse ma imparentate e riunite da un principio spirituale. Rispettoso delle identità, è animato da una sovranità fondata sulla fedeltà più che sul controllo territoriale diretto”21. Ogni manifestazione storica del modello imperiale si è infatti configurata, al di là della sua dimensione geografica e della varietà etnica e confessionale della popolazione corrispondente, come un ordinamento unitario determinato da un principio superiore.
Per quanto riguarda l’Europa, l’Impero ne ha sempre costituito il cuore ideale e politico, il centro di gravità, finché, con la decadenza e poi con la definitiva scomparsa delle più recenti forme imperiali, la stessa Europa si è identificata sempre più con l’Occidente, fino a diventare un’appendice della superpotenza transatlantica e una sua testa di ponte per la conquista dell’Eurasia.
Ma l’unipolarismo a guida statunitense non è eterno; la transizione ad un nuovo “nomos della terra” articolato in un pluriversum di “grandi spazi” rientra ormai in una prospettiva realistica, sicché l’Europa dovrà, prima o poi, ripensare il modello dell’Impero, l’unico modello politico di unità sovranazionale che essa abbia sviluppato nel corso della sua storia.



NOTE:
1. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Milano 2002, p. 33.
2. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 140.
3. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
4. Emmanuel Malynski, Les Eléments de l’Histoire Contemporaine, cap. V, Paris 1928; trad. it. Fedeltà feudale e dignità umana, Padova 1976, p. 85. Dello stesso autore: L’Erreur du Prédestiné, 2 voll., Paris 1925; Le Réveil du Maudit, 2 voll., Paris 1926; Le Triomphe du Réprouvé, 2 voll., Paris 1926; L’Empreinte d’Israël, Paris 1926 (trad. it. Il proletarismo, fase suprema del capitalismo, Padova 1979); La Grande Conspiration Mondiale, Paris 1928; John Bull et l’Oncle Sam, Paris 1928; Le Colosse aux Pieds d’Argile, Paris 1928. La Guerre Occulte, apparsa a Parigi sotto i nomi di Emmanuel Malynski e di Léon de Poncins nel 1936 (due anni prima della morte del Malynski), fu edita varie volte in italiano tra il 1939 (Ulrico Hoepli, Milano) e il 2009 (Edizioni di Ar, Padova).
5. Emmanuel Malynski, op. cit., ibidem.
6. Julius Evola, L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di Impero, “Lo Stato”, a. IX, 7 luglio 1940.
7. Julius Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, “La Vita italiana”, a. XIX, n. 217, aprile 1931.
8. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Milano 1997, pp. 81-82.
9. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, cit., p. 82.
10. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
11. Pietro de Francisci, Arcana imperii, vol. I, Roma 1970, p. 168.
12. “I diritti indigeni sopravvissero e continuarono ad essere applicati nelle diverse comunità che costituivano l’Impero: diritto ‘greco’ (in realtà diritto indigeno spolverato di diritto greco) in Egitto, diritto delle città greche nel Mediterraneo orientale, diritto di tale o talaltra tribù in Mauritania o in Arabia, diritto ebraico (Torah) per gli ebrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primavera 1992, p. 29).
13. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino 1993, pp. 25-26.
14. Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.
15. Arnold Toynbee, A Study of History, vol. XII, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, p. 158.
16. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. in: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 138. Cfr. C. Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.
17. Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Milano 2004, p. 15.
18. D. B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Milano 1964, p. 18.
19. Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006, p. 16.
20. Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Padova 1989, pp. 48.
21. Louis Sorel, Ordine o disordine mondiale?,in L. Sorel – R. Steuckers – G. Maschke, Idee per una geopolitica europea, Milano 1998, p. 39.