Riprendo qui un articolo datato 2006 e tratto dalla rivista on line Sintesi Dialettica, che esamina, alla luce della ns Costituzione, i rapporti tra Stato e Libero Mercato e pertanto in stretta relazione tra le presunte e dovute cessioni di sovranità nazionale rispetto ai sostanziali principi e dettami dei ns padri costituenti.
Sintesi, appunto, e diagnosi di realtà dimenticate.
Una buona lettura ed un altrettanto buona riflessione.
Un saluto,
Elmoamf
Articolo
La oramai inflazionata moda della rievocazione dello Stato liberale rappresenta, alla luce del dettato costituzionale e della teoria della forma di stato, un nostalgico ritorno al passato ed un’involuzione. Sulla scorta dell’analisi che qui presentiamo, evocareconsapevolmente l’idea dello Stato liberale è da considerarsi un vero e proprio attentato alla Costituzione della Repubblica italiana.
La dottrina costituzionalistica, tra i suoi vari distinguo, attua pure quello tra Stato liberale eStato sociale, rappresentando quest’ultimo un’evoluzione del primo. Questa evoluzione, nonostante le analisi di denuncia degli esponenti del socialismo e del cattolicesimo[1]ottocentesco, ma anche degli stessi esponenti del liberalismo – Alexis de Toqueville su tutti –, si è avuta solo una volta che il modello dello Stato liberale, degenerato verso l’individualismo radicale dell’homo homini lupus, degenerò verso i totalitarismi del secondo ventennio del ‘900. Questo ha voluto dire passare da una concezione meramente garantista, quella delle libertà negative (libertà dallo Stato), ad una concezione (pro)positiva (libertà nello Stato).
Questa evoluzione concettuale e funzionale dallo Stato liberale allo Stato sociale è sancita in modo esplicito dalla Costituzione all’art. 2 – “La Repubblica … richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” –, all’art. 3, 2° comma – “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” – e all’art. 4, 1° comma – “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.”
Il Costituente, conscio che l’economia non sia altro che un riflesso della bontà del modello culturale adottato – che buono non può essere quando non procede verso il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione –, già dall’art. 1, 1° comma della Costituzione, tra i “Principi fondamentali” (artt. 1-12), fa un immediato riferimento al lavorosancendo solennemente: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
Ma il riferimento all’economia, come si è già visto, è esplicito anche agli artt. 2, 3, 4 della Costituzione.
La questione economica, per il Costituente repubblicano, è dunque primaria, tanto da farvi riferimento nei primi quattro articoli del suo dettato.
A tal proposito, ci si potrebbe chiedere quanta sia oggi la distanza tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Ma, più ancora, tra la cultura dei pensatori del ’48 e la cultura deipragmatici d’oggi, che non fondano mail le proprie elaborazioni teorico-politiche sul pilastro dello sviluppo economico generalizzato[2], quanto piuttosto su demagogiche e velleitarie pretese di “esportare” democrazia, giustizia, libertà[3].
In questo quadro, il ruolo che i costituenti vollero per lo Stato fu quello interventista. Infatti, se a questo riguardo il tono del dettato è in molti punti possibilista – si pensi all’art. 42, 3° comma, e all’art. 43 –, all’art. 3, 2° comma, quello dell’eguaglianza sostanziale, all’art. 41, 3° comma[4] sulla attività economica, e all’art. 47 sul credito, è prescrittivi, anche se si è inteso interpretarlo in chiave programmatica, come a voler dire che è rimandato a non si sa quando.
A distanza di quasi sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, soprattutto in considerazione del fatto che durante il suo primo ventennio di vita, “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” erano costantemente ricercate[5], ci si può chiedere: il “programma” dell’art. 3, 2° comma, Cost., quando verrà ripreso, e soprattutto, perché è stato abbandonato negli ultimi trent’anni, durante i quali la forbice tra alti e bassi redditi ha ripreso vertiginosamente ad allargarsi?
Il lavoro
Come già visto, l’art. 1, 1° comma, Cost. recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.”
“I padri costituenti con questo primo articolo hanno doverosamente individuato un primus a cui fare inevitabilmente riferimento affinché si abbia una sana concezione delle relazioni politico-sociali e della persona umana.”[6] Il lavoro è dunque un pilastro su cui si erge il nostro sistema costituzionale. Sarebbe probabilmente bastata la corretta interpretazione, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della Costituzione per rilevare che il lavoro è un diritto. Ma il Costituente, all’art. 4, lo ha voluto sancire espressamente. Il lavoro,inquadrato nel reticolato dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, risulta essere l’unico strumento per eliminare le disuguaglianze sociali. Tuttavia, affinché ciò possa efficacemente realizzarsi “è bene interpretare il concetto di “lavoro” dal punto di vista più alto, e cioè come applicazione delle facoltà cognitivo-creative uniche dell’uomo, quelle che ci differenziano dagli animali e che permettono, attraverso le scoperte scientifiche, di aumentare la produttività con lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie. Questo onde evitare l’interpretazione riduttiva, marxista e feudale, oltre che antieconomica, del lavoro come semplice lavoro delle braccia.”[7]
Il dettato costituzionale, in più, avverte anche un’esigenza di carattere morale, esprimendo il netto rifiuto di una concezione dell’uomo come animale ozioso, vizioso e parassitario. Così l’art. 4, 2° comma, Cost. recita: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”[8] Dal peso derivante sulla società da questo inciso, in particolare sui governanti, non ci si può lealmente liberare sostenendo che nella società post-industriale della disoccupazione crescente, questo diritto non può essere riconosciuto e dunque, altrettanto, il dovere al lavoro non può essere preteso. Infatti il Costituente stesso, nel momento in cui emanò questa norma di principio, lo fece in un contesto storico di cui aveva piena consapevolezza, ossia quello della fase post-bellica della disoccupazione di massa. Se alla norma deve essere attribuito carattere programmatico, in ogni caso ciò esclude che dalla sua luce si possa scappare con forza crescente a distanza di quasi sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione. L’adesione alle politiche non interventiste e neo-liberiste avutasi con l’accettazione dei diktat del Fondo monetario internazionale a partire dal 1974, e poi a quelle di Maastricht dal ’92, non può essere giustificata col ricorso all’art. 11 Cost., poiché la violazione dell’art. 4 Cost., espressione dei principi fondamentali del dettato, risulta essere palese con l’adesione a quelle dottrine che il Costituente volle, invece, espressamente condannare. Ciò risulta sia dalla lettera che da un’interpretazione sistematica di tutto il testo.
La questione della proprietà privata
Anche la questione della proprietà privata è fra quelle che più segna il passaggio dalla forma di Stato liberale a quella dello Stato sociale. Se all’art. 29 dello Statuto Albertino, si parlava diinviolabilità della proprietà privata, la nostra Costituzione, all’art. 42, sposa una concezione che la dottrina ha definito “funzionale” di tale diritto, in quanto lo subordina al “perseguimento di determinati fini sociali”, tanto da parlarne come di “diritto soggetto ad affievolimento”[9].
L’eco della concezione cattolica della proprietà è fortissimo e si inserisce nella tradizione del Codice di Camaldoli[10].
E’ interessante notare la gerarchia adottata dal Costituente nel parlare di proprietà pubblica e privata: viene data, almeno in termini di citazione, la precedenza a quella pubblica. Questo aspetto è sicuramente rafforzato dagli articoli successivi, in riferimento a particolari categorie di beni.
Sezionando l’art. 42 della Costituzione, rileviamo che esso al primo comma recita: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.” Il legislatore costituzionale avverte dunque la necessità di citare la proprietà pubblica prima di quella privata. Ma avverte anche la necessità di precisare che i beni economici appartengono anche allo Stato, quasi a voler evitare ogni lettura, diciamo, anti-statalista che, alla luce della sola prima parte dell’articolo, avrebbe potuto interpretare l’aggettivo “pubblica” come genericamente riferibile al Popolo, negando così la sostanzialità dello Stato-Nazione. Di fatti, uno Stato senza proprietà alcuna, non è un soggetto libero.[11]
Il secondo comma recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.” Il Costituente rifiuta dunque la concezione marxista[12] della proprietà, sposando in modo pieno la ricostruzione fatta dalla Rerum Novarum di Leone XIII: proprietà privata sì, purché tale diritto sia esercitato non solo senza ledere l’altrui interesse, ma addirittura promuovendolo (“funzione sociale”, appunto). Viene detto poi che la proprietà privata deve essere resa “accessibile a tutti”. Questo, viste le attuali tendenze che il c.d. libero mercato consente di realizzare, deve essere inteso come un monito per impedire concentramenti di ricchezza così enormi da escludere sempre più il resto della cittadinanza dall’esercizio di questo diritto.
La Costituzione rafforza poi la sua presa di posizione passando da un’enunciazione di principio ad una maggiormente prescrittiva, anche se pur sempre possibilista: “La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.”
L’ultimo comma di questo art. 42, infine, resta attivo sulla strada della lotta al privilegio: “La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” Se, dal lato privatistico, si vuol impedire il radicale scollamento del legame familiare, manifestato anche dal patrimonio, dal lato pubblicistico si ribadisce il collegamento esistente tra ricchezza individuale e comunità, riconoscendo l’esistenza di un diritto dello Stato sull’eredità. Dalla lettura di quest’articolo pare chiaro come la legge varata sotto il governo Berlusconi in materia successoria sia fuori del quadro costituzionale. Il Costituente, infatti, sostiene che lo Stato abbia dei diritti sull’eredità, e che questi diritti debbano essere disciplinati per legge. Interpretare questo comma sostenendo che la legge possa allora affermare che lo Stato non abbia alcun diritto sull’eredità, pur rappresentando formalmente un “valido” sillogismo, rappresenta sostanzialmente l’elusione della prescrizione costituzionale, e deve dunque essere rifiutato.
La questione del credito
La questione creditizia, oggi poco dibattuta a cospetto di una storia e di una scienza dell’economia che, invece, la pone sul gradino più alto degli aspetti direttamente connessi alle libertà individuali[13], non poteva non essere affrontata dal Costituente.
L’art. 47, 1° comma, Cost., recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.”
Anche questa norma è di carattere prescrittivo e non possibilista; infatti dice: la Repubblica incoraggia, tutela, disciplina, coordina, controlla; non “la Repubblica può incoraggiare, tutelare, ecc.”.
Ora, si potrebbe interpretare questo articolo dicendo: bene, la Costituzione afferma che la Repubblica disciplina il credito, così noi discipliniamo il credito dicendo che chiunque, a prescindere dagli scopi, può ottenere del credito. Una tale interpretazione a cosa corrisponderebbe se non ad un modo liberistoide di interpretare tale articolo, tanto da rendere inutile la previsione costituzionale? Nella sostanza, infatti, laddove il costituente, in merito al credito, niente avesse previsto, che differenza avrebbe fatto rispetto alla situazione prodotta da un simile tipo di interpretazione? Dunque, se il regime successorio in questo momento in vigore deve essere considerato esplicitamente incostituzionale, altrettanto deve esserlo il regime creditorio in vigore. In entrambi i casi si è fuggiti dalla prescrizione costituzionale, dandole un’interpretazione tale da renderla inutile.
Ad ogni modo il legislatore costituzionale, probabilmente conscio dei tentativi elusivi che dopo di lui interessi particolaristici avrebbero potuto esercitare a proprio vantaggio, precisa al 2° comma dello stesso articolo: “[La Repubblica] Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. In sostanza, mette in relazione diretta il livello finanziario (di cui il credito è aspetto centrale) con l’economia fisica, reale (abitazione e produzione agricola o di altro genere). Il Costituente è consapevole di come il credito, per avere una funzione sociale, per perseguire il Bene Comune, non possa andare verso attività meramente finanziarie (speculative), quanto piuttosto verso il sistema produttivo. Il Costituente, con questo articolo 47, entra nella tradizione propria del Sistema Americano di economia politica, come sviluppato da Alexander Hamilton sotto George Washington, Friedrich List, Henry C. Carey sotto Abramo Lincoln, e Franklin Delano Roosevelt.
La stessa emissione monetaria, alla luce del dettato costituzionale, non può spettare ad un organo indipendente come la Banca d’Italia, e oggi la Banca centrale europea. Il dettato costituzionale secondo la dottrina costituzionalistica, infatti, intende organi indipendenti - “cioè che debbano poter operare liberamente senza subire limitazioni da parte di altri organi, diverse da quelle previste dalla Costituzione”[14] - tassativamente cinque attori: corpo elettorale, Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Non vi è dunque l’organo dell’emissione monetaria poiché tale funzione, come compreso dai padri costituenti americani, è funzione inscindibile dall’azione concertata tra potere esecutivo e potere legislativo.
Per poter correttamente interpretare l’art. 11, Cost. in combinato disposto con i principi fondamentali della nostra Costituzione come espressi dagli artt. 1, 3 e 4, s’impone dunque una competente conoscenza della scienza economica. Dunque, la privazione di sovranità monetaria prodottasi con l’adesione al Trattato di Maastricht – trattato che, in quanto ispirato dalla rifiutata concezione liberista dell’economia, svincola l’emissione creditizia dalla produzione[15] –, deve ritenersi in violazione della Costituzione, poiché il Popolo sovrano è privato di una sua fondamentale funzione, direttamente spettante alla Repubblica, quella della sovranità monetaria, necessaria per “il pieno sviluppo della persona umana”, per promuovere il diritto al lavoro e il progresso economico. Tutto ciò è cosa tanto più assurda se si considera che le banche centrali della tradizione c.d. liberale europea sono un consorzio delle principali banche private.
[1] Si pensi in particolare alla Rerum Novarum di Leone XIII.
[2] E’ espressione immediata della tradizione del ’48, il discorso del 20 settembre 2006 tenuto di fronte alle Nazioni Unite dal Presidente argentino Nestor Kirchner, che denunciando le politiche di ingerenza oligarchica alla sovranità delle singole Nazioni, sia da parte del Fondo Monetario Internazionale che da chi sta ricorrendo alla dottrina della “guerra preventiva”, ha sostanzialmente tenuto una lezione di arte del buon governo. Estratti del discorso a http://www.movisol.org/znews177.htm, 30 settembre 2006.
[3] Il sacerdote-educatore salesiano, Don Bosco, esprimeva questo principio di politica universale, chiedendo provocatoriamente agli educatori, come fosse possibile pretendere motivazione e disciplina, cultura e studio, a quei giovani a cui non veniva prima consentita la nutrizione, la pulizia, il vestiario.
[4] L’art. 41, 3° comma, Cost., recita: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
[5] Ciò è provato dal generale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione: ampliamento delle libertà individuali e sociali, aumento della capacità produttiva del Paese, conseguente aumento della capacità d’acquisto reale e degli spazi da dedicare al tempo libero, alla famiglia, alla cultura.
[6] http://www.ilcannocchiale.it/blogs/style/writer/dettaglio.asp?id_blog=22878&id_day=17&id_month=9&id_year=2006, 30 settembre 2006.
[7] Ibidem.
[8] In ciò, l’influenza della tradizione umanista, in particolare dell’Utopia di Tommaso Moro, non potrebbe essere più diretta.
[9] Il virgolettato è di Caretti-De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli editore, Torino, 1994, pag. 624.
[10] Il Codice di Camaldoli è il frutto di un lavoro prodottosi nel luglio 1943 per opera di un gruppo di intellettuali cattolici, sia laici che religiosi, presso il monastero benedettino di Camaldoli. In quel particolare contesto storico, l’obiettivo fu quello di fissare i principi fondamentali del pensiero sociale cattolico.
[11] A tal proposito, come insegnato dal Sistema Americano di economia politica, o sistema hamiltoniano, anche la moneta deve essere di proprietà dello Stato e per il proprio sviluppo, lo Stato sovrano, non dovrebbe avere necessità di fare ricorso al credito concessogli dalle banche private, quanto piuttosto fare ricorso al proprio potere di emissione monetaria.
[12] Invero, anche nella produzione concettuale di Platone e Campanella, pensatori sicuramente appartenenti alla tradizione umanista non materialista, si parla di comunione dei beni.
[13] La questione creditizia è sempre stata centrale nella storia dell’uomo. Si pensi a come questa è trattata da Platone ne Le leggi o dalla dottrina cattolica. Esemplare, al fine di un corretto approccio epistemologico alla questione, è la tragicommedia shakespeariana de Il mercante di Venezia, dove le figure di Shylock e Antonio esemplificano i due antitetici modi di relazionarsi al rapporto di credito-debito.
[14] Ibidem, Caretti-De Siervo, pag. 118.
[15] Concepire il livello finanziario (emissione monetaria e creditizia) in modo svincolato da quello produttivo, è foriero di tutti quei mali tipici di una concezione formalista della realtà, che non consente di vedere la sostanza delle cose. Questa errata concezione dell’economia è tornata in voga in occidente, in modo pressoché incontrastato, dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. La conseguenza più immediata di tale concezione è la nascita incontrollabile di bolle speculative a tutto discapito di produzione e lavoro (economia fisica). Esemplari, quanto deplorevoli precedenti storici di ciò, furono la Francia di John Law, nonché la fase maturata tra fine ‘800 ed il 1932 a cui Franklin Delano Roosevelt pose fine.
Fonte:
Sintesi Dialettica per l'Identità Democratica